In questo mese di Novembre approfondisco l’argomento sul vino novello per cui riporto quanto ha scritto riguardo al vino Novello il più grande Enologo Italiano Vivente Giacomo Tachis (nota ripresa dal sito: http://www.vinonovello.org/).
Mi sono permesso di evidenziare alcune considerazioni che testimoniano sia la diversità del novello rispetto al prodotto tradizionale “vino” sia i riflessi commerciali dal punto di vista produttivo che ha il novello. DA NON CONFONDERE ASSOLUTAMENTE CON IL VINO NUOVO!!
“Vino Novello: sapore di primo autunno, anticipo di caratteri e colori della nuova vendemmia. Attesa tentazione al liquore di Bacco di primo fervore.
Ai tempi di Columella questo vino si chiamava “doliore” e stava nelle “celle vinarie” anziché nelle “apoteche” o “fumarie” ove si collocavano i vini da invecchiamento. Diverso il “doliore” dall’ “horum”, che era il vino dell’annata, come per esempio alcuni Gaurani, alcuni Albani, Sabini e molti della Tuscia, ossia della Toscana. Il vino latino della Campania andava consumato entro marzo, mentre i doliores
venivano bevuti più prontamente. Ma un mercato vero e proprio non esisteva. Per quel poco di mia conoscenza, neppure nel Medio Evo, e neanche dopo, ha preso diffusione un commercio importante di vini novelli quale ora si intende. Tuttavia in quell’epoca e fino al sedicesimo e diciassettesimo secolo, specialmente in Francia, il vino era venduto assai velocemente dopo la vendemmia e con molta frequenza esso non passava l’inverno nel luogo di produzione. Ideale per i produttori era sbarazzarsi dei vini, specialmente di quelli che non erano destinati all’invecchiamento. Perché fare investimenti in cantine, quando in poche settimane o pochissimi mesi il vino viene esitato?
Nella regione parigina, nel 1600, più della metà delle aziende vitivinicole non possedeva cantine, così pure in Champagne. Notare che queste ne rappresentavano già le zone a maggiore densità . Il fenomeno si è protratto fino a dopo la seconda guerra mondiale.
E’ la città , il centro urbano, si pensava e si diceva, che consuma vino; è la città che possiede le cantine per conservarlo. In un certo senso, anche da noi era un po’ così, se per cantina di conservazione si vuole intendere più locale di evoluzione del vino imbottigliato, che opificio di trasformazione dell’uva in vino, con relative lavorazioni. E’ infatti soltanto dal nostro secolo che le cantine dei produttori e dei negozianti vinificatori si sono attrezzate anche di “bottiglieria”, cioè di cantina per la conservazione evolutiva del vino in bottiglia. E un po’ ovunque: dalla Borgogna al Bordolese, dal Piemonte al Veneto, alla Toscana. Una volta chi consumava il vino acquistava la damigiana o il fusto e se lo imbottigliava in casa. Poi, i produttori, pian pano sono diventati imbottigliatori. Ne è nata così l’enologia per l’imbottigliamento e la meccanica per l’imbottigliamento, con relativa industria. Da queste due voci è conseguita una serie di tecnologie specifiche, quali il collaggio, la filtrazione, la stabilizzazione a freddo e a caldo, la solforazione, e tante altre, fino all’attuale microfiltrazione, indispensabile specialmente per i vini novelli e per i vini bianchi. Più i vini sono giovani, più questa tecnologia è sentita. Il ripasso sulle vinacce o sull’uva fresca per ringiovanire e dare più fragranza ai vini, nel senso quasi di rinnovarli, reca data XVI-XVII secolo, ma non prima. Pratiche innovative che pian piano portano al gusto giovane, inventate per buona parte dai religiosi, specialmente da quelli appartenenti alle Congregazioni. Tutto questo sta a significare come, in antico, il gusto del consumatore era orientato dalla filosofia del vino vecchio di non pochi anni e abbastanza robusto. Ma qualche eccezione si fece strada anche allora riguardo all’età , alla qualità e alla caratteristica “alimentare” del vino. Alcuni medici, oggi si direbbero igienisti, manifestarono sin da quei tempi delle tendenze, quasi necessità , di attingere a vasi di prodotto meno vecchio, più soffice, più leggero: vino più potabile. Tiberio e Caligola indicarono nel Gauranum il primo vino soffice, alquanto leggero, sottile e non molto ricco di alcol. Era vino giovanissimo, il Gauranum. Quindi, se andiamo a cercare a fondo, un po’ di letteratura antica ce l’hanno anche i novelli.
Ma la loro storia vera non è del passato, bensì di tempi molto recenti. Un conto il vino nuovo del secolo scorso e della prima metà del corrente, un conto, il vino novello di oggi. Vino nuovo non è vino novello.
O meglio: vino nuovo non è più vino novello. E si, perché i primi novelli, più che novelli di oggi, erano vini nuovi, ma non con le caratteristiche dei novelli attuali. Oggi più di ieri, per questi vini di primo fervore si cerca il carattere soffice, rotondo, fruttato, dimentichi quasi della tradizione e della fedeltà alla tipologia storica, anche se appartenenti ad una determinata e catalogata origine di produzione sul piano geografico, topografico e pedologico. Vero che l’enologia italiana dei novelli parte da svariati vitigni e offre
al consumatore bottiglie diverse e diversificate per certe distanze organolettiche fra loro, non soltanto per origine varietale dei vitigni, per fattori pedoclimatici e per sistemi di allevamento della pianta. Ma è vero anche che la tendenza attuale è verso una bottiglia di immediato effetto organolettico basato sì, sull’aroma primario dell’uva, ma ancor più sul secondario, ossia su quel corredo frugace di fruttato che invita il consumatore ad essere velocemente avvinto senza chiedersi oltre, quando si alza da tavola. Tipologia non tanto di vitivinicoltura, quanto di enologia tecnica rampante. Tipologia di vino alla “carpe diem”, che genera emozioni subitanee, che piace al consumatore e che va bene al produttore. Tipologia di vino che non vuole essere il vino nuovo, ossia l’inizio, il rampollo di generazione tradizionale, ma a sé stante: “generazione novello”. Ecco perché rispetto a ieri, quando abbiamo prodotto il primo nuovo-novello, io mi sento già vecchio e devo fare il fiatone per correre con i tempi. Filosofia produttiva giusta, questa? E’ il mercato che lo dice e lo dovrà confermare in futuro. Io sarei anche per costruire della viticoltura da novelli. Intanto vuotiamo di qualche poco le cantine!… Il novello attuale, pur diverso nella nostra allungata Penisola, è molto più abbondante al centro e al Nord: il Meridione e le Isole ne producono poco o molto poco.
Eppure uve a gradazione zuccherina contenuta ci sono ovunque e le epoche di maturazione, man mano si scende nello Stivale, sono sempre più vantaggi
ose (o lo potrebbero essere). Probabilmente vi si arriverà negli anni a venire, perché il Sud ha bisogno di vendere molto vino imbottigliato. Non è facile come dirsi, produrre un vino soffice, leggero, da novello. Non è questione di far produrre di più la vite, in modo da ottenere vino meno ricco, meno tannico, più leggero… A volte si generano effetti di allappanza, di eccessiva astringenza, di magrezza esagerata, fino al “vuoto”. E non si ottiene quello che ci interessa. Infatti, soffice non significa leggero e tanto meno povero. La vite quando fruttifica molto, quei pochi tannini che dà , sono aspri, allappanti, vegetali e poco gradevoli. Anche per i novelli il concetto della qualità non cambia rispetto alle altre tipologie. Qualità intesa sempre come classe, come stile, come valore organolettico rapportato a ogni gruppo di appartenenza, ad ogni varietà di vino.
Qualità in caratteri cromatici, in caratteri olfattivi e finalmente gustativi. Il tutto fuso in un’armonia che si identifica poi nel piacere del “primo bicchiere del nuovo raccolto”. Bicchiere gagliardo e simpatico. Nel novello il colore è importantissimo. Esso non deve essere molto carico, ma neppure scarso. Proposta ragionevole è un rosso tendente al pieno e semplice: non pesante, non di contrasto, ma vivace ed invitante. A esso deve seguire una nota olfattiva che provochi piacere intenso e istantaneo. Nota di aromi secondari abbondanti e associati a pacate percezioni di primari che, vuoi per origine varietale, vuoi per questioni di tempo di sviluppo, non incide mai palesemente. A meno che nell’uvaggio e/o vinaggio non prevalga una componente dal carattere aromatico spiccato. La fisiologia dell’apparato enzimatico ha le sue esigenze di processo e il “tipico” dell’una e dell’altra varietà viene fuori sempre un po’ dopo il ciclo velocissimo di approntamento del Novello. Ma poi, per queste tipologie di vini, non si addicono neppure picchi di spiccato aroma varietale. Infine il sapore, il carattere gustativo. Delicato e non sempre domabile come anzidetto, il corredo gustativo. Protocollo laborioso, specialmente per le uve a buccia ricca di tannino, anche se un “dosaggio” di quantità estrattiva si riesce a ottenere regolando in difetto il tempo di contatto liquido-buccia, per non dire il tempo di macerazione come si intende nella classica vinificazione.
I rossi novelli, ancor prima di essere tali, sono neonati e possiedono, chi più chi meno, una certa frazione polifenolica allappante, quasi amarognola, stridente con l’indispensabile pronta “souplesse” che esse devono possedere, “conditio sine qua non”. C’è anche chi lascia qualche traccia zuccherina ben rilevabile al palato e all’analisi chimica per conferire quella rotondità , quel vellutatino che il novello dovrebbe possedere al netto dagli idrati di carbonio, se la mano riesce a incidere con capacità professionale. Il ruolo della microbiologia è primario nel protocollo di preparazione dei novelli, dato che il corredo olfattivo e in parte anche quello gustativo (basta pensare alla malolattica veloce) dipendono dall’ evoluzione microbiologica in un modo o in un altro. La tecnica di vinificazione per macerazione carbonica dell’uva non pigiadiraspata, determina la formazione di un sistema bifase in cui si svolgono fenomeni fermentativi anaerobici. Nella fase solida la polpa dell’acino diventa la sede di degradazione intensa in senso positivo, naturalmente – enziatiche intracellulari – mentre nella fase liquida (mosto proveniente dall’uva schiacciata per semplice gravità ) appaiono le fermentazioni per opera dei lieviti e dei batteri. Operazione valida, molto valida quella della macerazione carbonica, ma a “doppia lama”, nel senso che può assimilare organoletticamente un po’ troppo i vini fra loro, se non gestisce con criteri particolari. Infatti i prodotti del metabolismo sono più o meno sempre quelli e il così detto “aroma secondario”, cioè di fermentazione, non varie granché, anche se nel caso della carbonica è davvero “sui generis”. Si può ben parlare di lieviti aromatici, ma per ora, anche se un fondo di reale ci può essere, grandi risultati non se ne sono ancora visti, almeno per quel poco che posso personalmente conoscere. Già alla fine del rinascimento si parlava di sostanza “antofora”, ossia apportatrice di profumo, che originerebbe aromi per azione di un’altra, contenuta nei fermenti, detta “antogena”generatrice di profumi, ma non contenuta in tutti i mosti e quindi in tutta la flora blastomicetica. I microorganismi hanno una ricchissima storia.
La temperatura è poi un fattore essenziale nelle trasformazioni microbiologiche e quindi enzimatiche. L’uva che subisce la macerazione carbonica è quella intatta . Essa varia secondo i vitigni, oltre che secondo le condizioni di ambiente (vasi vinari, clima di cantina, ecc.) in cui la carbonica viene praticata. Di conseguenza occorrono regole che si possono stabilire sì, in generale, ma che in seguito devono essere ancor più perfezionate e modificate caso per caso, altrimenti si rischia di ottenere vini troppo uguali. In certo senso noi dobbiamo aggiungere il fruttato, il floreale, il complesso aromatico secondario, al corredo generale dalla base di partenza, qualunque essa sia. E’ facile scrivere e parlare; un po’ meno realizzare in cantina… Un altro particolare organolettico dei nostri novelli è la vivacità percepita all’assaggio. Vino con gas carbonico residuo di fermentazione, o senza gas?
Se guardiamo i francesi, dovremmo dire senza, ma non è detto che si debba sempre imitare o copiare dagli altri. E’ una questione di gusti. Basta però non andare oltre certi limiti.
I novelli italiani in genere hanno maggiore ricchezza di acido carbonico, che quasi sempre piace al nostro gusto,
ma non al consumatore straniero. Piace insieme con quel colore rosso vivace, brillante più che intenso, e che già alla fine del sedicesimo secolo aveva sorpreso così profondamente la cavalleria francese durante le guerre contro l’Italia, da ridestare una nuova filosofia sulla qualità del colore dei vini d’Oltralpe.
Parola non mia, ma di prestigiosi storici francesi. Finalmente, anche qualcosa di nostro ha influenzato i cugini confinanti!… Il rosso è sinonimo di sangue, forza, di maggiore vitalità e vivacità , senza considerare che, a quei tempi, il vino era considerato un alimento.
Ogni regione del nostro Paese ha la possibilità di produrre il proprio novello. Alcune zone poi, a intensa viticoltura, dovrebbero provarsi di più a “novellare” in vini di primo autunno. Chissà che una parte della loro produzione possa essere esitata in questo modo. Tutto questo serve per aiutare il mercato, che in questo momento ne ha davvero bisogno.”